Stefano Lentini, nato a Roma nel 1974, è tra i compositori più apprezzati in Asia dopo aver firmato la colonna sonora del film candidato a due Premi Oscar: “The Grandmaster” del regista cinese Wong Kar-Wai. Il suo successo è internazionale: negli Stati Uniti è l’unico compositore italiano, oltre al grandissimo Ennio Morricone, a far pare dell’agenzia The Gorfaine/Schwartz Agency. In Italia è autore delle colonne sonore di diversi film e serie televisive di successo come “La Porta Rossa”, “Taranta on the Road” e “Braccialetti Rossi”.
L’artista romano si distingue per il suo approccio non convenzionale; fondendo musica classica con elettronica e pop, Stefano Lentini riesce a regalare alle sue opere un tono solenne, emozionale e avanguardista.
Il 16 novembre scorso è uscito il suo ultimo album “Fury”, prodotto insieme all’ingegnere del suono Geoff Foster.
Abbiamo intervistato per voi Stefano Lentini: ecco cosa ci ha raccontato…
1) Ciao Stefano! Iniziamo a parlare del tuo amore nei confronti della musica…
Come ti sei avvicinato a questo mondo?
Da ragazzino avevo un gruppetto di amici con i quali ascoltavo e condividevo la musica, sopratutto heavy metal. A casa invece si ascoltava Marvin Gaye, Fabrizio De Andrè, Pink Floyd, Alan Parson’s Project, Vivaldi. Da un certo momento in poi ognuno di noi ebbe una chitarra. Io ho iniziato da subito a creare i miei pezzi e a registrarli, prima con un auricolare al posto del microfono, poi con un piccolo Fostex, un registratore multi-traccia a cassette. Registrare e creare musica è stato sempre molto eccitante, usavo la musica per comunicare, per raccontare qualcosa di cui non possedevo altri strumenti espressivi.
2) Com’è stata l’infanzia di Stefano?
Abbastanza piatta, pochi eventi, tutti controllati. Credo di essere appartenuto a quell’ondata culturale medio-borghese di fine anni settanta in cui i bambini venivano un pò inibiti e repressi, in cui si diceva “giochi di mano / giochi da villano”, eravamo tutti bravi ragazzini, non viziati, poco emotivi, poco centrati, che scoprivamo la vita con gli amici per strada, con tutti i pericoli che ciò comportava.
3) Chi ti influenza maggiormente in ambito musicale?
Le stoccate più forti le ho ricevute da artisti e gruppi molto differenti, ero un metallaro sui generis perchè ascoltavo il romantico Angelo Branduardi insieme a Pantera, Metallica, Anthrax e Iron Maiden. Poi sono stato folgorato dalla musica barocca, ho cominciato a studiare liuto rinascimentale e ho virato bruscamente verso Chopin. Ho lasciato la mia band metal per dedicarmi al flauto traverso dopo aver ascoltato la Bourée dei Jethro Tull. Ho amato il prog a partire da un band svedese non molto conosciuta, gli Änglagård. Poi è arrivato l’innamoramento per la musica klezmer, il jazz della swing era, il pop elevato di Alan Parsons e il fingerpicking di John Renbourn, fino a giungere ai canadesi The Dears che mi hanno aperto al mondo dell’indie anglofono. In linea generale mi influenza e mi ispira la musica autentica, quella dalla quale sento arrivare un’urgenza espressiva sincera.
4) Quando hai scoperto il mondo delle colonne sonore? Ti senti più spettatore o addetto ai lavori?
La prima colonna sonora che mi ha segnato è stata quella che Ennio Morricone scrisse per uno sceneggiato Rai del 1989 ispirato a “I Promessi Sposi”. C’era un tema di viola che mi faceva sognare. Infatti, non so come, ma comprai un violino per cercare di riprodurlo. Poi alcuni anni dopo ci fu una seconda illuminazione, più lucida e consapevole: “Film Blu” di Kieślowski. Oggi guardo il cinema come spettatore puro, se la colonna sonora mi travolge mi faccio poche domande e mi lascio stupire da ciò che sento. La mente dell’addetto ai lavori cerco di non accenderla mai, è quanto di più nefasto e pericoloso possa esistere nella musica.
5) Come riesci a trasmettere ciò che provano gli altri nelle tue composizioni, non tralasciando mai l’inconfondibile presenza che rende unici i tuoi lavori?
Vado oltre l’emozione del protagonista e lavoro sulla mia. Ne creo una nuova e aggiungo una voce nuova alla narrazione. E’ un’atto predatorio.
6) Quanto è importante per te poter vedere le immagini e i frame per ispirarti prima di iniziare a comporre? Dove ti arrivano le idee di solito?
Ogni progetto è dannatamene diverso e non mi è possibile replicare nulla di quanto ho esperito prima. Una volta è la fotografia, una volta la faccia dell’attore, una volta la sceneggiatura, una volta il produttore. Bisogna cercare di rimanere ricettivi, accogliere tutto e aspettare.
7) Di recente hai lavorato alla soundtrack della seconda stagione de “La porta rossa”: come sei riuscito a prendere per mano i telespettatori e portarli nel tuo mondo?
E’ stato merito del regista, Carmine Elia, che aveva la visione chiara di una musica di rottura con gli stili codificati. Voleva evitare le consuetudini della musica da commento e la immaginava come una protagonista della storia. Mi ha lasciato una totale libertà e questa fiducia ha dato i suoi frutti.
Ma questo lavoro è merito davvero di tutti, siamo in una rete, un mosaico: il montatore Marco Garavaglia, l’editor Damiano Antinori, ciascuno a suo modo ha contribuito ad innalzare il linguaggio musicale della serie.
8) Ci parli dei tuoi prossimi progetti futuri?
Sto lavorando ad una nuova serie che andrà in onda l’inverno prossimo. Per ora non posso anticiparti nulla tranne che si tratta di un progetto musicalmente molto ambizioso e che a che fare con l’acqua.
9) Parliamo di Braccialetti Rossi, una serie che ha colpito tutti per la difficoltà delle tematiche trattate. Com’è stato poter lavorare a questo progetto?
E’ stato come fare politica, nel senso più alto del termine: aiutare, sostenere, dare coraggio. La cosa più eclatante è stata sentire l’energia di tanti ragazzi malati gravi negli ospedali che nella serie hanno trovato la forza di andare avanti. Abbiamo lavorato per una causa, con l’idea di un servizio televisivo pubblico rivolto ad esercitare una delle funzioni più elevate: la solidarietà.
10) Qual è il sogno di Stefano?
E’ già un sogno essere qui a rispondere alle tue domande.